"Shostakovich, 50 anni dopo: l'attualità di un testimone scomodo del Novecento"

19.09.2025
di Roberto Fasciano

Il 9 agosto 1975 si spegneva a Mosca Dmitri Shostakovich, una delle figure più complesse e affascinanti della musica del Novecento. Cinquant'anni dopo, la sua voce continua a interrogare, a turbare, a scuotere la coscienza di chi ascolta. Shostakovich non è stato soltanto un compositore celebrato ufficialmente dall'Unione Sovietica, ma anche un artista costretto a vivere sotto la costante pressione del potere, oscillando tra conformismo apparente e resistenza interiore. La sua musica resta oggi il diario sonoro di un'epoca segnata da tragedie e contraddizioni.

Il rapporto con il regime fu ambiguo e tormentato. Nel 1936, dopo il clamoroso successo internazionale dell'opera Lady Macbeth del distretto di Mzensk, un articolo anonimo sulla "Pravda" lo accusò di formalismo e di essere nemico del popolo: fu l'inizio di anni di paura, di attese di arresto, di autocensure. Più volte cadde in disgrazia, più volte venne riabilitato, in un'altalena che rifletteva le oscillazioni del potere sovietico. Shostakovich divenne così un simbolo della condizione dell'artista in epoca totalitaria, diviso tra sopravvivenza e integrità.

Le sue quindici sinfonie, scritte nell'arco di quasi mezzo secolo, possono essere lette come un diario in musica del "secolo breve". La Quinta, "una risposta giusta a una critica giusta", fu presentata come gesto di riconciliazione con il regime, ma rivela, a uno sguardo più profondo, un pathos tragico che va ben oltre la propaganda. La Nona, con i suoi toni beffardi e ironici, rifiutò la monumentalità attesa dopo la vittoria sulla Germania nazista, trasformandosi in un atto di sarcasmo musicale. L'ultima, la Quindicesima, con le sue citazioni enigmatiche e i suoi toni rarefatti, sembra invece meditare sul senso stesso della fine, della memoria, del destino.

Se le sinfonie furono il palcoscenico pubblico, i quartetti d'archi rappresentarono lo spazio più intimo e segreto. In quelle pagine si ascolta un linguaggio più personale, spesso dolente e introspettivo, che riflette paure, ricordi, affetti familiari. Nei lavori estremi, come la Sonata per viola o il Quartetto n. 15, il suono diventa meditazione sul silenzio, sguardo sull'oltre, testimonianza estrema di fragilità e resistenza.

A cinquant'anni dalla morte, Shostakovich continua a vivere nelle sale da concerto di tutto il mondo. Le esecuzioni storiche di Mravinsky, Kondrashin, Rostropovich, Oistrakh hanno lasciato interpretazioni indelebili, ma nuove generazioni di direttori e interpreti — da Andris Nelsons a Kirill Petrenko, da Valery Gergiev a Vladimir Jurowski — ne rinnovano oggi l'attualità. Per alcuni, la sua musica è soprattutto testimonianza storica; per altri, invece, è linguaggio universale, capace di parlare a chiunque, in ogni tempo, di dolore, resistenza, ironia, speranza.

Anche la ricezione in Occidente ha seguito un percorso singolare. Inizialmente visto come emblema della propaganda sovietica, fu rivalutato progressivamente come voce autonoma, testimone dell'angoscia di un secolo. Non mancano ancora oggi le controversie: Shostakovich fu davvero un dissidente silenzioso o un abile equilibratore tra arte e potere? Probabilmente entrambe le cose. Questo dualismo, lungi dall'indebolirne la figura, la rende ancora più attuale e complessa.

Shostakovich rimane il cronista musicale del Novecento, un artista che ha trasformato la propria vicenda personale e il dramma collettivo della sua epoca in musica che continua a parlare di noi. Nel silenzio sospeso della sua ultima sonata, nelle marce sarcastiche delle sue sinfonie, negli accordi spettrali dei quartetti, c'è la voce di chi ha saputo raccontare il dolore e la dignità dell'essere umano di fronte al potere, alla morte, alla storia. A mezzo secolo dalla sua scomparsa, quella voce non si è spenta: continua a risuonare, ineludibile e necessaria.